Pagina:Leopardi - Operette morali, Chiarini, 1870.djvu/49

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DIALOGO.

XXXXV


sempre da ignoranza e da falso ragionamento. Di che naturalmente conseguita, dovere, qualunque è savio, adoperarsi a dissipare questi errori, parlando sempre agli uomini il linguaggio della verità, e assuefacendoli per tempo a stimare sè medesimi e le cose per ciò che sono realmente; e dovere altresì nell'educare per tal guisa le menti a un forte e sano ragionare, porre ogni studio a svolgere e confermare nel cuore umano quei sentimenti dai quali rampollano le illusioni generose e gentili. Se tutti gli uomini, dice il Leopardi, volessero esser virtuosi; se fossero compassionevoli, benefici, generosi, magnanimi, pieni d'entusiasmo, non sarebbero forse più felici? Ciascun d'essi non ritrarrebbe mille vantaggi dal vivere nell'altrui compagnia? E l'umana società non dovrebbe cercare con ogni cura di ridurre ad effetto quanto è possibile le illusioni, poi che la felicità dell'uomo non può trovarsi in ciò che è reale? Che rileva che il Leopardi chiami illusioni le virtù? Con questo nome egli non iscaccia però dagli animi de' mortali quei sentimenti ond'esse derivano. Chi non chiama illusione la speranza? E pure chi non è sempre apparecchiato ad accoglierla nell'animo anche dopo i più terribili disinganni? La filosofia leopardiana (non ridete, mio buon amico) è essenzialmente pratica; ed appunto per ciò essenzialmente morale. Invece di dire agli uomini: questa vita è niente, la vera vita vostra comincia dopo la morte; invece di ammonirli: fate il bene, e ve ne sarà dato largo premio quando non sarete più; procacciate d'esser infelicissimi in questo mondo per vivere eternamente beati in un altro, che non potete sapere nè dove sia nè che sia; fate bene agli altri anche con vostro danno e dolore; essa dice loro: la presente vita, che certo non è felice nè bella.