56. Ripongo la nocciuòla e la castagna,
E rimetto le gambe in sul lavoro
Per una lunga e sterile campagna
Disabitata più che lo Smannoro1.
Dopo cinqu’anni giunta a una montagna,
Mi si fe’ innanzi un grande e orribil toro,
Che ha le corna e i piè tutti d’acciaio,
E tira, che correbbe nel danaio. 57. E come cavalier che al saracino
Corre per carnovale o altra festa,
Verso di me ne viene a capo chino,
Colla sua lancia biforcata in testa.
Io già colle budella in un catino
Addio, dicevo al mondo, addio chi resta;
Addio Cupído, dove tu ti sia,
A rivederci2 ormai in pellicceria. 58. O mamma mia, che pena e che spavento
Ebbe allor questa mezza donnicciuola!
Tremavo giusto come un giunco al vento;
Chè quivi mi trovavo inerme e sola.
Pur, come volle il cielo, io mi rammento
Del dono delle Fate; e la nocciuòla
Presa per caso, presto sur un sasso
La scaglio; ella si rompe, e n’esce un masso.
↑St. 56. Smannoro: Si dovrebbe dire Ormannoro. Campi Ormannorum, erano certe pianure vicine a Firenze possedute dagli Ormanni. (Nota transclusa da pagina 203)
↑St. 57. A rivederciecc. È il saluto di congedo attribuito alle volpi, di cui si dice che tutte finiscono in pellicceria. (Nota transclusa da pagina 203)