Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.1, Laterza, 1913.djvu/156

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150 iii - rime

x

[Per un ritratto della sua donna.]


     Nel picciol tempio, di te sola ornato,
donna gentile e piú ch’altra eccellente,
o de’ moderni o dell’antica gente,
pel tuo partir poi d’ogni ben privato,
     sendo da mia fortuna trasportato
per confortar l’afflitta alma dolente,
m’apparve agli occhi un raggio sí lucente
ch’oscuro di poi parmi quel che guato.
     La cagion, non potendo mirar fiso,
pensai lo splendor esser d’adamante
o d’altra pietra piú lucente e bella,
     per ornar posta, ornata lei da quella;
ma poi mutai pensiero, e il radiante
raggio conobbi, ch’era il tuo bel viso.


xi

Sonetto fatto a Reggio, tornando io da Milano, dove trovai novelle che una donna aveva male.


     Temendo la sorella del Tonante,
che a nuovo amor non s’infiammassi Giove;
e Citerea che non amassi altrove
il fèro Marte, antico e caro amante;
     la casta dea delle silvestre piante,
invida alle bellezze oneste e nove,
Pallade, che nel mondo si ritrove
donna mortal piú casta e piú prestante,
     ferono indebilir le sante membra,
ch’èn di celeste onor, non di mal degne.
Ah invidia, insin nel ciel tien’ tua radice!
     Tu, biondo Apollo, s’ancor ti rimembra
del tuo primiero amore, e non si spegne
pietade in te, fammi, ché puoi, felice.