Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.2, Laterza, 1914.djvu/271

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ii - capitoli 265

     per le mie membra lacerate ed arse,
per la tua destra a me tanto donata;
e se mai cosa in me dolce ti parse,
     non mi lasciar sí scossa e abbandonata;
deh! vincati una cieca, sanza guida,65
giovane semplicetta innamorata,
     qual sanza te di vita si diffida;
ché se ostinato se’ pur di fuggire,
forza è ch’io sia di me stessa omicida.
     Perché dal dí ch’io seppi il tuo partire,70
esanimata, vòlsi venir meno
per evitare un piú crudel morire.
     Presi colla mia man l’aspro veleno:
per manco infamia, non spettai quel punto,
qual so verría, di mille morte pieno.75
     Ma, quando il tosco appresso al cor fu giunto,
forza non ebbi (oh, dispietato giorno!)
per il vigor in sé tutto congiunto,
     tra li spiriti uniti intorno intorno
per sustentare il cor quasi giá scosso,80
li quai piú che ’l velen possenti fôrno.
     E se per piú dolor morir non posso,
come leon farai nutrito in bosco,
se questo caso almen non t’ha commosso?
     Ah! lassa a me, che insin nel crudo tosco85
truovo qualche pietá che non offende;
ché piú crudel di te nulla conosco.
     Ma vedi che la man altra via prende:
farallo il ferro dispietato e crudo,
poi ch’ogni altro da morte mi difende,90
     qual ora in la sinistra tengo nudo;
con l’altra scrivo, e preparato è il petto,
ché alla infelice è sol la morte scudo.
     Sospesa sto; da te risposta aspetto:
che se lassar mi vuoi, sto nel confino;95
farò del tristo amor l’ultimo effetto.