Pagina:Lucrezio e Fedro.djvu/231

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Lib. IV. Fav. VI. 217

     Le rughe appiani, e a me miglior ti renda;
     5Con novelli coturni eccoti Esopo.
          * Deh non avesse mai Tessala scure
     Stesi nel Pelio giogo a terra i pini:
     Deh non avesse fabbricato unquanco
     Col consiglio di Palla Argo la nave,
     10Ch’a Barbari in lor danno, e a Greci aprìo
     Del mar l’ignoto sen: indi la morte
     Ampla vide a sue prede aprirsi strada.
     Quinci ne piagne del superbo Aeta
     La casa, e di Medea per l’empio ardire
     15Soffrir’ di Pelia i regni eccidio estremo.
     Essa in più modi barbari ingegnosa,
     Co’ sparsi brani del fratello, e il varco
     A la fuga trovò; in quel paterno
     Sangue lordò le figlie. Che ti sembra,
     20Lettor, di tal principio? Ed è scipito,
     Mi rispondi, ed è falso: ognun pur sa,
     Che molto innanzi con possente armata
     Signor del vasto Egeo si fe’ Minosse,
     E un giusto freno a la baldanza impose.
     25Come fia dunque, o leggitor Catone,
     Ch’unqua a te piaccia, se diletto alcuno
     non può recarti, o favoletta, o favola?
     Non pugner le belle arti, se ti è caro
     Da le punture lor andarne esente.
     30Il dissi a tal (se pur vi è alcun sì stolto)