Pagina:Luisa Anzoletti - Giovanni Prati, discorso tenuto nel Teatro Sociale la sera dell'11 novembre 1900 per invito della Società d'abbellimento di Trento, Milano 1901.djvu/15

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Prati a ravvivare la lirica nazionale con un fresco zampillo di vita nuova, che le altre regioni italiane forse non potean più concedere, dappoichè tanta copia d’ingegni avean data nella prima metà del secolo al rinnovamento della letteratura e soprattutto della poesia.

Era destinato che da quest’ultimo confine del Bel Paese, in questa famiglia italica, per lunga successione di tempi fieri e laboriosi, vessata da tutte le calamità e da tutte le ingiustizie, ma sempre rudemente tenace ne’ suoi originarj caratteri, era destinato si venissero preparando qui le energie di natura, e qui intatte s’accogliessero le qualità dell’ingegno schietto e libero, caldo e scintillante, che il Prati recò dall’alpestre valle nativa a rinsanguare il genio lirico d’Italia. Sì, era destinato che un poeta trentino, quando Lombardia e Toscana, cessata l’opera del Manzoni, del Niccolini, del Giusti, non davan segno che di sterile silenzio, o di ancor più sterile rigoglio d’imitazione, era destinato che un poeta trentino ridestasse gli spiriti della poesia nazionale, nel momento storico più glorioso d’Italia dopo la gran lotta medievale per la libertà dei comuni: nel momento unico e incomparabile, quando, spezzato l’ultimo anello della millenaria catena, quel Dio che tutti i redenti chiamò non più servi, ma liberi, concedeva finalmente al popolo italiano, esule sino allora in Italia, una patria.

Quell’aurora dell’indipendenza, che il Manzoni avea cantata con un Inno inteso da pochi; quel meriggio ardente, che si andò infiammando nel decennio aperto col martirio supremo dell’Italo Amleto; quel crociato labaro, che pur tra il fosco della procella, tra l’imperversar dei disastri, pur sempre raggiava al vigile occhio dei patriotti; quei campi di guerra, dove il sacrifizio di mille madri, di