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cominciava ad arrischiare qualche famigliarità, qualche domanda che lo costringesse ad uscire dalle sue trincee.

— E che cosa si dice a Milano — esclamò a un tratto gittandosi addietro sulla spalliera della seggiola e piantando ritti sull’orlo della mensa forchetta e coltello stretti ne’ pugni,— cosa si dice a Milano di Ottone il Grande?

Vista la stupefazione dell’ospite a tale inattesa domanda, diede in una grottesca risata.— Io voglio parlare di questo Bismarck— soggiunse poi pronunciando la parola Bismarck a gola piena, con un fremito di voluttà da’ capelli a’ piedi, come se, nella tortura del parlare italiano, quelle due sillabe gli portassero un refrigerio, un soffio d’aria natía.

Il nobile conte era ancor lontano in quella notte estiva del 1864 dal successo e dalla gloria: ma il suo compatriota ne parlò, senz’attendere risposta, per dieci minuti, con foga, con ammirazione mista di odio e di terrore.

— In Europa lo credono un pazzo — conchiuse. — Ma per Dio...! Wir haben sechs und dreissig Herren, signor. Un altro pezzo di questa trota? Noi abbiamo trenta e sei padroni; vedrete fra dieci anni. Avete mai bevuto Johannisberg? È una vergogna per quest’uomo che il primo vino del mondo si fa in Germania e non è suddito del suo re. Non è uomo da soffrire lungamente simili cose!

— Oh— esclamò il loquace segretario cacciandosi le mani nei capelli, tirandoseli su fra le dita con uno slancio di desiderio. — Oh, questo Johannisberg, oh! — E stringeva ridendo gli occhietti brillanti come se assaporasse il nettare sospirato. — In una stanza voi sentite se si è sturata una bottiglia di Johannisberg. Un altro bicchiere, signor; io prego. È solamente Sassella e non ha più odore che se fosse acqua, ma per vino italiano può passare. Scusate molto mia franchezza, signor; in Italia il vino non si sa fare nè bere.