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un iota e faceva sbigottire i suoi amici, snocciolando pacatamente le maggiori empietà. Avrebbe voltato di buon grado con la faccia al muro un ritratto di Raffaello e fatto fodere di un Tiziano; non ne gustava la vista più che della tela greggia e non avrebbe nascosto, per tutto l’oro del mondo, il suo pensiero. Gli erano meno odiosi i pittori arcaici, perchè li trovava meno artisti, più cittadini. Non sapeva poi ragionare questo suo giudizio. Aveva invece in uggia particolare la pittura di paesaggio che stimava indizio di decadenza civile, arte ispirata dallo scetticismo, dal disprezzo dei doveri sociali e da una specie di materialismo sentimentale. Non era uomo da disperdere i quadri prediletti da sua madre, ma li teneva prigionieri in un lungo corridoio al secondo piano a tramontana, sopra la sala da pranzo, dove aurore e tramonti s’intirizzivano nelle loro cornici dorate.

Nell’entrare per uno dei due usci che mettono capo a questo corridoio, parve a Silla che qualcuno fuggisse per l’altro; vide un lampo negli occhi della sua guida. Le tre finestre del corridoio erano spalancate; ma, poteva venire dalle finestre quell’odore di mown-hay?

Uno degli antichi seggioloni di cuoio addossati alle pareti a eguali intervalli e spiranti gravità prelatizia, era stato trascinato per isghembo vicino alla finestra di mezzo, in faccia a un Canaletto meraviglioso; e sul davanzale della finestra c’era un libro aperto, tutto sgualcito ma candidissimo.

— Vedete — disse il conte, chiudendo tranquillamente le invetriate della prima finestra — io tengo qui delle possessioni strabocchevoli. Tengo montagne, boschi, pianure, fiumi, laghi e anche una discreta collezione di mari.

— Ma qui — esclamò Silla — vi sono tesori!

— Ah! la tela è molto vecchia e d’infima qualità.

Così dicendo il conte mise il seggiolone a posto.

— Ma come, tela! Ma questo soggetto veneziano, per esempio?