Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/249

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canto quarto 247


187.Tacitamente a meza notte io sorsi,
ed avendo a ferir stretto il coltello,
lassa, ch’un Mostro (è vero) un Mostro scorsi,
ma Mostro di beltà pur troppo bello!
Quel lume spettator, ch’innanzi io sporsi,
a quanto narro in testimonio appello,
che quando un tal oggetto a mirar ebbe,
raddoppiando splendore, ardore accrebbe.

188.Ahi non senza sospir me ne rimembra,
che contemplando quel leggiadro velo,
dico il corpo divin, che certo sembra
meraviglia del mondo, opra del Cielo,
a l’armi, a l’ali, a le purpuree membra,
ond’uscìa foco da stemprare il gelo,
m’accorsi alfin, che quel ch’ivi giacea,
era il vero figliuol di Citherea.

189.Ma quel perfido lume e maledetto,
accusator de le bellezze amate,
non so s’invido pur del mio diletto,
o vago di baciar tanta beltate,
al sonnacchioso Arcier, ch’ignudo in letto
le palpebre tenea forte serrate,
con acuta favilla il tergo cosse,
sì ch’a l’aspra puntura ei si riscosse.

190.E veggendomi armata in sì fier atto,
scacciommi, e non fe’ più meco dimora.
«Vanne» disse «crudel, vattene ratto
e dal mio letto, e dal mio petto fòra.
Io tutti i miei pensier per tal misfatto
volgo in tua vece a la maggior tua suora.
Ella (e t’espresse a nome) io vo’ che sia
e di me Donna, e de la reggia mia».