Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/119

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I

Al signor...


Difficoltá che s’incontrano a Roma per far fortuna.

Io sono in Roma, e sento disgusto estremo che gli uomini per eccesso d’amorevolezza abbiano conceputo qualche espettazione di me, e che in un certo modo con l’onor mio non posso restare nel mio stato, si perché venni solo qua per vedere e poi tornarmene a leggere, si anco maggiormente perché, volendo restare, so che in modo alcuno non posso farne riuscita. Ed eccovi le raggioni.

In Roma s’arriva a qualche grado di grandezze per quattro mezzi : per splendore di sangue, per danari, per fortune, per fatiche. Per splendore di sangue saliscono a’ cardinalati tanti personaggi di stirpe ducale, regale e di tante altre famiglie illustrissime, come alla giornata si vede. Questo mezzo, per mediocritá dello stato mio e della mia fameglia, da me viene escluso. — Per danari in due modi : o col potersi mantener in Roma in casa orrevole, con cocchi e servi, entrando in prelatura; o col comprare uffici, come chiericati di Camera, uditorato della Camera e tesorierato. E questa strada purtroppo dalla tenuitá delle mie fortune anch’ella mi vien preclusa. — Per fortuna riescono quelli a’ quali succede pontefice il parente, l’amico, il padrone. Ma chi non sa che il pensare questo di me e fondarvi espettazione è mera vanitá e sogno e pensiero di cosa incertissima, comeché dalla ruota della Fortuna venghi aggirata? — Si che resta il solo mezzo delle fatiche. Il quale si riduce a questi capi : sollecitare, procurare ed avocare. A’ quali tutti tre è commune una longhissima e crudel pazienza, un stentar indefesso, una longhezza di tempo troppo dura. Ma questo poco m’importerebbe,