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sonetti amorosi | 93 |
xxxvi
il primo incontro
Ancor non sapev’io, bella mia Flora,
dal bosco ir solo a la cittá vicina,
quando in schiera leggiadra e pellegrina
uscir ti vidi a la campagna fòra.
Era ne la stagion, quando l’aurora
col dí non ben distinto ancor confina,
e l’erbe sparse di minuta brina
non ha tepido il Sol rasciutte ancora.
Tu, pargoletta (or giá volgon duo lustri),
ten givi un serto, con tua mandra errante,
di fior tessendo e di mature fraghe.
Io stava in parte rimirando, e quante
cogliea la bianca man rose e ligustri,
tante m’erano al cor facelle e piaghe.
xxxvii
la rosa caduta alla sua ninfa
— Questa, che ’l bianco piè di Citerea
trafisse ignudo e del suo sangue tinta
rosseggia ancor, giá fresca, o caro Aminta,
a la tua Lidia in bocca oggi ridea.
Ma, mentre odor piú dolce indi traea,
di piú vivo color sparsa e dipinta,
secca, qual vedi, e vergognosa e vinta
cadde dal labro, ch’agguagliar credea. —
Sí disse Coridon. Mirolla fiso,
e ’n lei di pianto un rugiadoso gelo
il misero pastor stillò dal viso.
— Felice rosa — ei disse, — oh dal tuo stelo
teco nato fuss’io, teco reciso!
Come sdegnar puoi tu gli orti del cielo? —