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epitalami e panegirici 339

     Spesso i baci in oblio
pone il garzon, rivolto
a vagheggiar quel volto,
raggio gentil de la beltá di Dio.
Quivi l’occhio e ’l desio
ferma e sospira e tace;
e quasi aquila a Sol, farfalla a face,
arde e dice tacendo:
— Vo’ mirando morir, mirar morendo. —
     Ne’ tremuli zaffiri
de le luci beate,
le luci innamorate
talor torcendo in pietosetti giri,
suoi giocondi martíri
le racconta e distingue,
e ’n una lingua sol forman due lingue
parolette sorrise,
spesso da baci e da sospiri uccise.
     — O bellezza celeste,
de’ miei dolor conforto,
soavissimo porto
de l’amorose mie gravi tempeste,
son pur le membra queste
(e non sogno e non fingo?),
son pur quelle ch’amai, queste ch’io stringo?
pur del mio bene intatto
possessor fortunato oggi son fatto?
     Ma chi contende e vieta
mercede ai giusti preghi?
perché toccar mi neghi
de le speranze mie l’ultima mèta?
perché, cortese e lieta,
quel fior meco non cogli,
ond’hanno in breve a derivar germogli,
ch’empier di nobil frutto
denno, nonché l’Italia, il mondo tutto?