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La morte di queste persone fece riguardare il colera come contagioso, e diffuse un tale spavento per la città che non si poteva più aver infermieri, nè becchini, e fu un tratto singolare della Provvidenza, che sia cessato all’improvviso il morbo desolatore.

I sintomi di questa terribile epidemia, sono una forte dissenteria, un granchio dolorosissimo alle articolazioni, un respiro affannoso, un grave peso sullo stomaco, un color di piombo sulla faccia, gli occhi incavati, fissi, e circondati da un anello nerastro e dolori inesprimibili di visceri.

Questa malattia è un mistero per l’arte medica, e sino a quest’ora non si trovò ancora il rimedio per curarlo. Il vero colera asiatico in poche ore riduce all’agonìa, e si rende talvolta fulminante.

Fu Ceva funestata per la seconda volta nell’autunno del 1855, dal colera asiatico ed in due mesi 72 persone ne restarono vittima. In quest’occasione Monsignor Ghilardi Vescovo di Mondovì, reduce da altri paesi invasi dal colera nella val di Bormida, diede una commovente ed edificante prova del suo cuore caritatevole e sempre propenso a soccorrere gli infelici.

Giunto alla casa parrocchiale di Ceva già a notte avanzata dopo breve riposo, volle portarsi al Lazzaretto dei colerosi. Ne trovò uno agonizzante e volle egli stesso assisterlo al gran passaggio dandogli la benedizione papale, leggendogli il proficiscere, visitò uno per uno i colerosi, confortandoli con amorevoli esortazioni, e distribuendo loro generosa limosina. Ne abbia il degno prelato la debita riconoscenza dai coetanei e l’onorevole ricordanza dei posteri.

Chiuderemo la desolante storia di tante sciagure con quella che funestò Ceva sul tramontare del 1839.

Un lungo ed enorme bastione cingeva dalla parte d’oriente il castello Pallavicini, minacciava già da qualche tempo rovina, e per parte delle autorità locali se ne era dato avviso a chi di ragione.