Pagina:Moro - Le lettere di Aldo Moro dalla prigionia alla storia, Mura, Roma 2013.djvu/23

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Consapevole di questo tentativo, sostanzialmente “eversivo” — puntualmente realizzatosi dopo la sua morte, e che tanto è costato e seguita a costare al nostro Paese — mio padre ha condotto, con la debolezza delle parole, la sua ultima battaglia politica, giuridica e istituzionale, in una agghiacciante solitudine. Ha seguitato a farlo per cinquantacinque giorni, pur minacciato di morte dai suoi carcerieri e umiliato e deriso da coloro che avrebbero dovuto essere con lui difensori della democrazia repubblicana.

Proprio per questi motivi i fogli dei quali si parla in questo libro contengono, per così dire, un surplus di drammaticità: vi è nella fragilità di quelle pagine di cui questo libro parla un’immagine quasi allegorica della fragilità stessa della democrazia, quando voglia essere anche strada di giustizia e di pace. Soprattutto perché essa si regge sulla irriducibile volontà di farla vivere da parte di uomini mortali che è sempre troppo facile colpire perché non possano proseguire il loro cammino.

C’è nelle lettere di mio padre tutta la drammaticità di una svolta della storia, vissuta con piena consapevolezza ed impegno dal suo involontario protagonista in una incomprensione stolida o colpevole della politica e della intellighenzia italiana.

Mi sembra tanto importante riproporci nella loro essenzialità quegli avvenimenti, attraverso parole che vengono da tanto lontano. E avere finalmente il coraggio di guardarli in faccia. Per non dimenticarli, ma soprattutto per riflettere su quale strada è giusto intraprendere. E quanto costa farlo.