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Una sera zio Isidoro Pane lavorava nella sua catapecchia, alla luce viva d’un gran fuoco. Almeno un gran fuoco zio Isidoro poteva permettersi, giacchè le legna le portava lui stesso dai campi, dalle rive del fiume, dal bosco. Durante l’inverno egli intesseva corde di pelo di cavallo: sapeva far di tutto, cuciva, filava, cucinava (quando aveva di che), rattoppava le scarpe: eppure non usciva mai di miseria.

D’un tratto s’aprì la porta: nel vano apparve un lembo di notte marzolina, chiara ma velata, e Giacobbe Dejas venne a sedersi silenzioso accanto al fuoco.

La cucina del pescatore pareva un quadretto fiammingo, con le figure nitide nella luce rossa che profilava gli oggetti lasciando nero lo sfondo: e in quello sfondo nero si scorgeva una tela di ragno, cinerea, col ragno nel mezzo; nell’angolo del focolare un’ampolla di vetro colma d’acqua fino al collo, con dentro le sanguisughe nere nuotanti; un cestino giallo appeso al muro, e poi le figure dei due uomini, e la corda di pelo nero sfrangiata fra le dita scarne e rossastre del vecchio pescatore.

— Ed ora come si fa? — chiese Giacobbe.

— Come si fa? Come si fa? — ripetè l’altro.

— Io non lo so.

— Hanno fatto le cose per bene; — riprese Giacobbe e pareva parlasse a sè stesso; — è tutto fatto, proprio tutto! L’ubriacone oggi non è venuto neppure all’ovile: anch’io son ritornato in paese. Ebbene, che gliele rubino pure, le pe-

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