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Don Esteban. 257

si trovò così infelice, così infelice che i singhiozzi le salivano alla gola agitando il suo bel seno — il quale fra parentesi, stava benissimo agitato sotto i merletti di un accappatoio rosa, forma princesse — e pensò che meglio era morire piuttosto che vivere senza emozioni.

Proprio allora, dall’aperta finestra inghirlandata di gelsomini, balzò nel salotto un uomo mascherato che venne a cadere ai piedi di doña Sol dicendole con voce alterata dalla passione:

— Doña Sol, io vi amo e vi rapisco. Perdonatemi!

Doña Sol fu sollevata come una piuma; il suo accappatoio rosa svolazzò per un momento al di sopra dei gelsomini, e una delle sue scarpette di raso rimase appiccicata a un ramo del fiore prediletto; poi scese la scala di seta, sempre fra le braccia dell’incognito rapitore e fra le medesime braccia fu portata sulla groppa dell’arabo.

Che resistenza poteva opporre la piccola e graziosa doña Sol? Ella comprese subito, ah! pur troppo, che le emozioni del ratto e della scala di seta non corrispondevano all’ideale che se ne era formata. Ma come fuggire da quelle braccia che sembravano d’acciaio? Come liberarsi da quel mantello che la copriva tutta, e dentro il quale il suo corpicino delicato rannichiavasi come una farfalla in una foglia durante un temporale?

Le tremava il cuore forte forte; aveva paura. Uno spasimo convulso le teneva serrati i dentini e solo dopo una corsa sfrenata, sentendo rallentare il galoppo le era sfuggita quella esclamazione:

     Neera, Novelle gaje. 17