Pagina:Neera - Una passione, Milano, Treves, 1910.djvu/266

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invece di inebriarla la penetrava di una tristezza sempre più profonda.

— Ippolito, dobbiamo separarci.

Erano quelle veramente le parole pronunciate da Lilia, le parole che l’aria avea trasmesse, che le pareti tutte intorno avevano raccolte, le parole mostruose e sacrileghe? Quelle? E nessuno protestava, ed egli stesso, l’ardente innamorato, giaceva come percosso da fulmine? Giaceva immobile colla fronte sui ginocchi di Lilia.

In questa apparenza di morte risorse il coraggio della donna. Ella incominciò ad accarezzargli blandamente i capelli con una tenerezza che indulgeva al di lui dolore, con una sapienza di mano esperta che fascia le ferite da lei stessa procacciate. E continuò a parlare, dapprima lentamente, a frasi interrotte:

— Fanciullo mio, mio povero amico...

Più indovinato che inteso cadde fra i suoi ginocchi questo lamento:

— Non mi ami più.

— No, Ippolito, non è vero. Ti amo sempre, ma bisogna essere ragionevoli, posso io disporre della tua vita, puoi tu stesso sacrificarmela quando una intera famiglia riposa su di te, quando l’arte ti chiama, quando l’avvenire ti aspetta e devi tu stesso muovere a conquistarlo? Serba nella tua memoria questi mesi d’amore. Serba l’immagine mia come quella di una