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238 odissea

E più, che d’altri, mia: chè del palagio
Il governo in me sol, madre, risiede.420
     Attonita rimase, e del figliuolo
Con la parola, che nell’alma entrolle,
Risalì in alto tra le fide ancelle.
Quivi, aprendo alle lagrime le porte,
Ulisse Ulisse a nome iva chiamando:425
Finchè un dolce di tanti, e tanti affanni
Sopitor sonno le mandò Minerva.
     L’arco Euméo tolse intanto; e già il portava
E i Proci tutti nel garriano, e alcuno
Così dicea de’ giovani orgogliosi:430
Dove il grand’arco porti, o disennato
Porcajo sozzo? Appo le troje in breve
Te mangeran fuor d’ogni umano ajuto
Gli stessi cani di tua man nutriti,
Se Apollo è a noi propizio, e gli altri Numi.435
     Impaurito delle lor rampogne,
L’arco ei depose. Ma dall’altra parte
Con minacce Telemaco gridava:
Orsù, va innanzi con quell’arco. Credi
Che l’obbedire a tutti in pro ti torni?440
Pon cura, ch’io con iscagliati sassi
Dalla cittade non ti cacci al campo,
Io minor d’anni, ma di te più forte.