Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/642

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libro vigesimosecondo 261

Gli drizzò tali accenti: Eccomi, Ulisse,
Alle ginocchia tue, che di te imploro395
Gli sguardi, e la pietade. Io delle donne
In fatto, o in detto non offesi alcuna:
Anzi gli altri alle sozze opre rivolti
Di ritenere io fea. Non m’obbediro:
Però una morte subitana, e acerba400
Delle sozze opre lor fu la mercede.
Ma io, io, che indovin tra i Proci vissi,
Io, che nulla commisi unqua di male,
Qui spento giacerò degli altri al paro?
È questo il pregio, che a virtù si serba?405
     E Ulisse, torvi in lui gli occhi fissando:
Poichè tra i Proci indovinar ti piacque,
Spesso chiedesti nel palagio ai Numi,
Che del ritorno il dì non mi splendesse;
Che te seguisse, e procreasse figli410
La mia consorte a te: quindi e tu al grave
Sonno perpetuo chiuderai le ciglia.
Così dicendo, con la man gagliarda
Dal suol raccolse la tagliente spada,
Che Agelao su la morte avea perduto;415
E di percossa tal diede al profeta
Pel collo, che di lui, che ancor parlava,
Rotolò nella polvere la testa.