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HELDER. 393

era impossibile di raggiungere la costa orientale dell’Asia, pensarono di tornare indietro; ma era già il 25 d’agosto, tempo in cui l’estate, in quelle regioni, volge alla fine; e non tardarono ad accorgersi che non era più possibile neanche il ritorno. Si trovavano imprigionati fra i ghiacci, smarriti in una solitudine spaventosa, avvolti da un’immensa nebbia, senza disegno, senza speranze, e in procinto d’essere da un momento all’altro urtati e sepolti dalle montagne di ghiaccio che galleggiavano e cozzavano con tremendo strepito intorno alla nave. Non rimaneva loro che una sola via di salute, o piuttosto un mezzo di ritardare la morte: erano vicini alla costa della Nuova Zembla, potevano abbandonare il bastimento e ridursi a passare l’inverno in quell’isola deserta. Era una risoluzione disperata, che non richiedeva meno coraggio che quella di rimanere a bordo; ma almeno portava con sè il moto, la lotta, una nuova forma di pericoli. Dopo qualche esitazione, scesero dal bastimento e approdarono all’isola.

L’isola era disabitata; nessun popolo del nord v’aveva mai posto piede; era tutta un deserto di ghiaccio e di neve, flagellato dalle onde e dai venti, sul quale il sole non gettava che raramente un raggio fuggitivo e senza calore. Nondimeno, i poveri naufraghi mandarono grida di gioia quando vi posero il piede, e s’inginocchiarono nella neve per ringraziare la Provvidenza. Dovettero pensar subito a fabbricarsi una capanna. Nell’isola non v’era un albero; ma per fortuna si trovava là presso una gran quantità