Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/176

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CANTO XXI 173

230e se qualcuno udisse frastuono qua dentro o grandi urli,
degli uomini serrati nel nostro recinto, non esca
dall’uscio, ma rimanga dov’è, taccia e intenda al lavoro.
E tu serra, fedele Filezio, le porte dell’atrio,
col chiavistello; e sopra v’attorci secura una fune».
     235E cosí detto, di nuovo entrò nella solida casa:
quivi sovr’esso il seggio sedé, donde prima era surto,
e dietro i due famigli entraron d’Ulisse divino.
Avea dato di piglio frattanto Eurímaco all’arco,
e lo scaldava alla vampa del fuoco qua e là; ma neppure
240cosí, gli venne fatto di tenderlo; e il solido cuore
forte piangeva; e tutto crucciato, cosí prese a dire:
«Ahi!, quale ambascia per me, per tutti i compagni m’invade!
E non mi lagno già per le nozze, se ben me ne affliggo:
molte altre donne achive pur vivono in Itaca alpestre
245cinta dal mare, ed altre per l’altre città; ma mi lagno
perché tanto da meno noi siamo in vigore d’Ulisse
pari ai Celesti; né siamo capaci di tender quest’arco;
e biasmo tal ne avremo, che i posteri ancor lo sapranno».
     E gli rispose cosí Antínoo figlio d’Eupito:
250«No, non andrà cosi, Eurímaco, intendilo bene.
Oggi pel Dio dell’arco nel popolo è festa solenne:
chi mai di tender l’arco curar si vorrebbe? Smettete,
state tranquilli. Le scuri direi di lasciarle qui tutte
dove ora sono; ché niuno vorrà, se non erro, introdursi
255entro la casa d’Ulisse figliuol di Laerte, e rubarle.
Su via, dunque, il coppiere ricolmi per primo le tazze,
sicché, libando ai Numi, si lasci il pensiero degli archi.
Quindi s’imponga al capraio Melanzio che all’alba dimani
capre qui rechi, quante migliori ne conta il suo gregge.