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326 | POESIE |
Alla nostra infermissima vecchiezza
E siano poscia eredi
Di nostri cari armenti
Allor che sarem spenti.
Clo. Metti pur cura a raunare armenti,
Non verran meno eredi;
Quanto al sostegno dell’etade inferma
Che risponder poss’io?
Salvo, che bene spesso odo tra vecchi
Non leggiere querele
Sovra il costume de’ figliuoli; e spesso
Chiamarli non conforto,
Ma lor pena, e tormento,
E non sanno trovar chi gli consoli.
Meg. Ciò non avvien sovente,
Anzi di rado avviene;
Ma pure è tenerezza oltra misura
Mirare i semplici atti ed ascoltare
II rotto favellar, che, balbettando,
Ti fanno intorno i figli
Scherzando, e vezzeggiando.
Clo. Che non dici più tosto
Udire un lungo suono
De’ vagiti notturni?
È ben dolce ad udir su verdi rami
Il vago rosignuolo,
Che se risplende il Sole,
O se la notte adombra
I gran campi dell’aria,
Non mai si stanca d’iterar le note
O gioconde, o dogliose
A sentir dilettose;
Dolce ad udire il mormorar de’ rivi,
Il susurrar dell’aria infra le fronde,
Ma non è dolce il pianto
De’ tuoi bambini in fascie;
Pensa a l’orror dei monti;
Al fresco de le valli:
Torniti a mente un praticel fiorito
E tra le selve il corso
De lo scoperto lupo,
O del cinghial ferito,
Il trasvolar de’ cervi
O sul giogo de’ monti, o lungo il fiume,
E dietro il can, che palpitando anch’egli
Per l’orme a pena impresse
Par, che metta le piume;
Questi sono piacer, sono diletti,
Questa è vita tranquilla;
Così si gode, o cara,
E diletta Megilla.
Meg. Oh la vista de’ prati,
De’ monti e delle valli,
De le fresche riviere
Non si concede al guardo de le spose?
Non ponno saettar? non tendere archi?
Non dar morte a le fere?
Clo. Come errar per le selve)
Donna può, ch’abbandona a le capanne
E fanciulli, e fanciulle?
Non può tergere i dardi,
Ne fornir le faretre,
Ed aver per la mente, e fascie, e culle;
Non è cosa gioconda
Senza la libertate,
Così credo io; tu spendi questo giorno
Giocosamente e su per gli alti gioghi,
E disiami teco,
Che teco io veramente A
Verrò per le foreste,
E sarò con Licasta
Col corpo solamente.
SCENA SECONDA
Megilla.
Lasso me; d’ora in ora
Veggio più chiaramente,
Più tristo, e più dolente
Uscire i miei pensieri;
Io credei con questi abiti mentiti,
E farmi intra le Ninfe
Compagna Clori e procacciar conforto,
Ed aprirmi la strada
A le nozze bramate,
E trovar refrigerio a’ gravi ardori;
Lasciai d’Elide i campi,
Ove soavemente era cresciuto,
Venni a’ monti d’Arcadia,
E qui non conosciuto
A mia voglia dimoro
Sempre con esso lei,
Che solo al mondo onoro;
Ma fuor di quelle labbra uscir le voci
Vêr l’amorosa fiamma
Io non sento giammai se non feroci;
In quel nobile core
Solamente è desio d’archi, e faretre;
Ama predar le selve,
Nè d’altro sente amore;
Dunque giojosamente
I fortunati amanti
Menino l’ore appresso
Le lor dilette Ninfe;
Mirino mansueti i lor sembianti,
Ascoltino parole, osservino atti,
Che mantengano viva,
E facciano fiorir la lor speranza;
A me tristo, infelice
Altro omai non avanza
Salvo che vagheggiar quella bellezza,
La qual, s’udrà giammai
Esser da me con ogni fede amata,
Si colmerà d’asprezza;
Sotto fiero tormento,
E senza ombra di speme.
Di tutto quel, ch’Amore
A’ servi suoi comparte,
È rinchiusa la strada al mio desire,
Solamente col guardo
Io posso procacciarmi alcuna aita,
E per si fatto modo
O vivere o morire;
Belle selve d’Arcadia
Da voi darassi esempio
A la futura etate,
Si come alta beltate
Fosse altamente amata; e come insieme
Durasse un cor fedele