Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo II.djvu/183

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LIBRO SECONDO 161

dente invece e l’empio va meditando pretesti di rompere la concordia. Nulla è più facile d’un bellico apprestamento, ed i pessimi de’ mortali sopravanzano gli altri in sì turpi maneggi; addiviene però scabrosissima impresa il ben condurre una guerra, ed il terminarla con vantaggiosa pace. Tu, o re, ti chiami offeso dalle mie lettere, che interpetri in guisa affatto contraria alla mia intenzione, a fine di potermi rimproverare con qualche ombra di giustizia, quando a me si compete il forte querelarmi delle ostilità commesse sì da Alamandaro in tempo di perfetta amicizia tra noi, delle costui rovine sopra il tener mio, delle città soggiogate, del rapito danaro, e de’ sudditi miei uccisi o condotti seco prigionieri. E di tali cose anzichè aggravarne il mio nome adopereresti assai meglio purgando te stesso, perocchè le opere e non i pensieri debbonci guidare nel far giudizio delle ingiustizie e delle soperchierie. Ora con tutto ch’io siami l’offeso non cesso di bramare la pace; tu all’opposto desideri la guerra, e per venirne a capo vai rimestando cavilli, de’ quali non havvene un solo che possa a buon diritto essermi incolpato. L’uomo pago delle cose presenti allontana ogni occasione di querimonie, ma chi anela scombigli è trovatore sagacissimo di falsi titoli per aprirsi la via delle armi: condotta più che ripugnante all’onesto procedere di un monarca, e sin detestabile negli abiettissimi del volgo. Pensa di grazia al sangue che verserassi nelle molte battaglie, e su cui ricadranne la colpa; considera il giuramento