Pagina:Oriani - Oro incenso mirra, Bologna, Cappelli, 1943.djvu/114

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sorta di sonnambulismo, adesso procedeva senza far rumore per trovare il nascondiglio: tratto tratto gli arrivavano buffi olezzanti così acuti che il suo cervello già malato in quella tensione ne vaneggiava. La navata aveva sette cappelle, ma solo in due ardeva sull’altare entro un vasetto di cristallo, pieno di acqua e di olio, un lucignolo galleggiante: il cristallo azzurrino rendeva quella luce come lontana. Tutte le cappelle avevano la balaustra bassa, interrotta nel mezzo da un cancelletto di ferro a palle di ottone. Egli le conosceva, erano piccole, coll’altare addossato al muro, senza tendine di fianco, come quelle che lo hanno discosto; sarebbe quindi bastato al sacrestano, passandovi dinanzi col lume nel suo giro prima di chiudere la chiesa, gittarvi una occhiata per scorgere se vi fosse qualcuno. Poi in quella navata sboccava l’uscio della sacrestia, dalla quale dovevano uscire ancora parecchi preti. Forse la maggior parte di loro avrebbe preso dalla grande navata centrale per inginocchiarsi l’ultima volta davanti al feretro, ma egli tremava nullameno di essere ancora lì appoggiato ad un pilastro, non osando entrare nel vano dell’arco, dirimpetto al quale nell’altra navata rutilavano tutti quei ceri intorno alla morta. La loro luce, proiettandosi vivamente, malgrado l’ingombro delle ultime persone, arrivava sino dentro l’arco, nel quale avrebbe dovuto passare. La sua coscienza tentò un moto supremo di rivolta, che si risolse in un sentimento più doloroso. Invece di rimanere addossato a quel pilastro, del quale il freddo gli penetrava nelle carni attraverso il mantellone, passò dal lato delle cappelle e si appoggiò al confessionale sporgente dal loro muro divisorio. Il confessionale, chiuso a chiave secondo il solito, aveva al disopra dello sportello solamente una tendina.