Pagina:Oriani - Vortice, Bari, Laterza, 1917.djvu/104

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nella quale le cose e gli uomini perdevano coll’esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null’altro. Tant’era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno.

— Oh! non dici niente oggi? — gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po’ avversato.

— Pensi ai miei debiti o ai tuoi? — seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione.

Egli sussultò.

— Sono così, non lo so; — ma gli parve subito dopo di avere risposto male.

Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c’era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro.

— Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via.

— Perchè cinquanta franchi?

— Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta...