Pagina:Oriani - Vortice, Bari, Laterza, 1917.djvu/152

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Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sè per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null’altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai.

Di qua e di là della strada i campi bassi s’affondavano in un’ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi.

Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell’ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite.

Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare.

Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l’opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d’incendio prossimo a spegnersi gl’indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse.

D’un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant’Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro.

— Due quarti dopo mezzanotte, — esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno.