Pagina:Oriani - Vortice, Bari, Laterza, 1917.djvu/156

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Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda!

In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita.

Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un’altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l’accese, più lunga del sole che si spegnerà. L’uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sè, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre.

Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l’oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero.

Allora l’umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi