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168 i cinque pulcini


— Con la santa pazienza, signor sì! — rispose una voce di fuori, ma la porta, invece di chiudersi, si spalancò meglio per lasciar entrare un uomo che era tutto avvolto in un ferraiuolo e pareva più largo che alto. — Eccola chiusa, la porta — disse costui — sono contenti? — e l’aveva rabbattuta con un calcio indietro, giacchè le mani erano impiegate altrove sotto il mantello. Da una parte lasciò cadere un sacco, dall’altra parte scappò fuori un quarto bambino, più piccino, più infagottato, più roseo del terzo.

Allora tutti gli avventori si misero a ridere: — Fate come la chioccia, galantuomo? Guardate, guardate che ve ne scappa fuori un altro dal cappuccio!

— Niente, niente paura, brava gente: nel cappuccio c’è solo un po’ di neve — rispose il buon uomo asciugandosi la fronte che sgocciolava di sudore sotto il berretto di pelo.

L’uomo, liberato delle due appendici posticce, cioè il sacco ed il quarto piccino, appariva adesso di costruzione normale, e non un gran fagotto con sopra una testa; anzi era una faccia rosea e sana come quella dei suoi bambini e vi rideva un’espressione di lavoratore sereno.

— Io ho bisogno — disse all’oste che gli era venuto incontro — di una stanza per questa notte, da spendere poco, però, con due letti: due dalla testa e uno dai piedi ci stiamo tutti e cinque.

— Allora venite pur su! — disse l’oste.

L’uomo riafferrò solo il sacco, il piccino questa volta se lo prese per la mano: i due grandicelli, ad un segno del babbo, rimisero sulle spalle le bisacce.

— Spall arm! e un, due, tre, avanti! — gridò uno degli avventori, e la compagnia si mosse, uno per uno, aprendosi un difficile passaggio attraverso i tavoli e poi scomparendo su per una scaletta, guidati dall’oste.

Dopo un quarticello d’ora, cinque paia di scarpe ferrate ridiscendevano la scaletta.