Pagina:Parabosco, Girolamo – Novellieri minori del Cinquecento, 1912 – BEIC 1887777.djvu/195

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Dunque tacer debb’io,

né del silenzio mio

riprender mi dovete,

poiché si bella e valorosa séte,

ch’a pien dir non ne può pur lingua il vero,

ma non basta a pensarlo anco il pensiero.

Parlato fu assai sopra di questi madrigali, e poscia il Corso a legger un sonetto incominciò:

Maga gentil, che col tuo viso adorno, coi dolci sguardi e le parole accorte, com’a te piace, a me dai vita e morte, e in mille forme e piú mi cangi il giorno;

ben puoi sempre girar quest’alma intorno, e queste membra travagliate e smorte or ghiaccio, or foco far, ché la mia sorte fa che in dolce pensier sempre soggiorno.

Né potrá il ciel, non pur valore umano, far ch’io non pensi a te la state e ’l verno, sera e mattin, da presso e da lontano.

E vedrassi di fuori e nello interno, ove mi scorga il fato, in monte e in piano, e vivo e morto, in cielo e nell’inferno.

Finito il sonetto, disse il Veniero: — Oltre al soggetto che ha questo sonetto, guardate quanta grazia gli dona la chiusa de’ terzetti, la quale è accompagnata con le rime a uso di capitolo. — Soggiunse l’Aretino: — Io sono stalo uno di quelli a cui somamente è piacciuto tenere tal ordine in tutti, o almeno nella maggior parte de’ miei sonetti; e ora piú mi piace d’aver ciò osservato, posciach’io truovo compagno cosi raro in questo mio giudicio. — Seguite di grazia, signor Corso — disse il Veniero, — l’altro sonetto, ché il signor Pietro è tanto cortese, che, se voi con il leggere non gli interrompete la occasione che egli prende di fare onore a me, poco meritevole, egli non finirá in tutto oggi. — Voi — soggiunse l’Aretino — dovete essere sicurissimo che io, nocchiero di picciol legno, non