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la poesia lirica in roma 155

scosse nell’apprendere la vittoria, ora esprime nella sapphica il sentimento di riconoscenza alla divinità, sentimento che si fa profondo e quasi triste nell’ora della gioia presente per il pensiero del dolore passato. Il poeta, dopo avere ripercorsi i prodigi che alla morte di Cesare parvero mostrare la fine d’un’età, si trova così presente all’affanno che ha evocato, che non dice «chi doveva» ma «chi deve invocare il popolo, quali preghiere devono formulare le vergini inviolabili?» Le preghiere furono trovate, il dio vendicatore scese in terra. Ma non è egli nè la molle divinità dell’amore nè la feroce deità della guerra; è il dio alato, il dio compagnevole, il dio che uccise Argos e che trovò la lira. Egli vendicò Cesare, fa tornare con la pace la prosperità e vorrà punire i Parthi a cui pensava quel grande quando fu ucciso. È Mercurio, è Cesare Ottaviano1. Ma l’inno non si chiude lietamente, poichè vi è espresso il timore che il dio non si levi sulle ali sue, lasciando i Romani ai loro vizi e i Parthi senza vendetta. In verità, la colpa fu troppo grande. Siffatto dubbio domina nell’ode ad Asinio Pollione, che in questo anno 725 attendeva alla storia dello sconvolgimento civile finito l’anno prima. Finito veramente? le faville, dice il poeta, covano sotto la cenere, il sangue civile è ancora sulle nostre armi. E ripensa le battaglie e le stragi, per mare e per terra, in tutte le parti del mondo. A un certo punto, tutto pareva domato: restava contumace un’anima, Catone. E dire che questa orribile guerra cominciò dopo l’ultima grande sconfitta delle

  1. C. XIII [I-II].