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montanina impregnata dell’odor del timo. Vi era stato anche, per esempio, nel tempo che componeva il suo poema lirico sull’Augusto, e in quella campagna aveva ripensato la sua fanciullezza, i paeselli Lucani posti sulle roccie come nidi, il Vulture pieno di selve, e le selve piene di paurosi serpenti e orsi. Orazio era fedele alle sue memorie. Aveva nell’orecchio, si può dire, il mormorio d’una fonte che lo aveva dissetato e addormentato nelle sue gite di ragazzo ardito; della fonte Bandusia vicino alla sua Venosa; ed egli ingannò il suo desiderio ponendo il nome di Bandusia alla sorgente vicina alla villa Sabina, la qual sorgente poi diventava ruscello, scendendo alla valle di Ustica. Sgorgava essa all’ombra dei lecci, e i bovi sazi d’arare e gli armenti e i greggi erranti vi trovavano acqua e rezzo, e il poeta sentiva in quel gorgoglìo parole sommesse. Era Bandusia, la ninfa lucana che gli parlava di suo padre, della sua nutrice, della sua patria. Un pino, sacro a Diana, nereggia accanto alla villa; echeggia nella valle lo zufolo del vento primaverile; passa tra gli albatrelli densi un, branco scalpicciante che si rivela al grave e improvviso odore. Viene l’inverno, sono le None decembri. I contadini banchettano sull’erba, i bovi hatino scianto anch’essi, e il vento porta per tutto l’odore buono dei sacrifizi e il suono di canzoni e di ballonzoli. Cadono le foglie.... è la selva che festeggia a suo modo il dio che passa invisibile facendo sentire una melodia di zampogna tra il fogliame già rado degli alberi: Fauno.

Fauno ch’ami le fuggitive ninfe,
dal mio regno, dai solatii miei campi