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scrivere per codesti Priapi i loro epigrammi, di molta eleganza sempre, non sovente di soverchia pudicizia: alcuni, tuttavia, pieni di freschezza e di vita. In uno d’essi, il LI (della raccolta detta «Priapea»), è nominato il cocomero:

               ...cucumeres... humi fusos (verso 18).

Il poeta che aveva chiamato «seminosas» le zucche, dalla quantità dei loro semi, ai «cucumeres » non aggiunge altro epiteto, se non uno derivato dalla breve ma esatta descrizione di Virgilio, che ha «tortus.... per herbam».

Chi si dilunga sul cocomero, pur con quella sua pretensiosa concisione «scientifica», è il buon Plinio, nella sua «Historia Naturalis», XIX, 23, 5. Il qual Plinio ebbe il torto di studiar la natura, di cui era istorico, per lo più sui libri. Egli ci racconta che Tiberio li amava molto i «cucumeres», e li poteva avere dalla terra ogni giorno dell’anno, chè li portava attorno in orti pensili, con le ruote. Ci dice, ricavando la notizia da autori greci, che per averli dolci bisognava tenere i semi infusi nel latte e miele. Ci dice che si possono ottenere di tutte le forme. Ci dice che in Italia sono «verdi e piccolissimi », nelle provincie grandissimi e color cera e neri. Allignano molto nell’Africa, nella Mesia sono giganteschi. Quando hanno passato una certa misura si chiamano «pepones».... Il che fa dire a qualche commentatore che Plinio intende con lo stesso nome di «cucumeres» sì i cocomeri e sì i meloni. Aggiunge Plinio che «vivunt hausti in stomacho in posterum diem», il che si potrebbe tradurre: «mangiati, rimproverano sino al giorno