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allora nè poi; chè non sei partecipe delle rose della Pieria; e anzi oscura nelle case dell’Invisibile andrai coi ciechi morti svolazzando»1. E rileggiamo le due odi superstiti, alle quali s’è aggiunto ora qualche buon frammento: leggiamole in quella loro molle cadenza trocaica, alla quale la nostra lingua non dovrebbe, per sua natura, essere così nemica:

I.

Afrodite, figlia di Giove, eterna,
trono adorno, piena di vie: ti prego!
non domar con pene e con crucci, o grande
                              nume, il mio cuore.
Anzi vieni qua, s’altra volta ancora,
quella voce mia di lontano udendo,
l’ascoltavi: dalla patema casa
                              subito uscisti;
aggiogasti al carro tuo d’oro i belli
tuoi veloci passeri: sulla nera
terra, tra l’azzurro del cielo, con un
                              battere d’ale
rapido, eccoli! ecco che tu, beata,
con un riso dell’immortai tuo viso
mi chiedevi cosa mai fosse, cosa
                              mai ti chiamassi,
cosa voglio mai per il folle cuore
mio. Chi vuoi che Dolce-parola ancora
tra codeste braccia conduca? chi, o
                              Clara, t’offende?
Chè se fugge, poi ti vorrà seguire,
se ricusa i doni, vorrà donarne,
se non t’ama, poi t’amerà se anche
                              tu non lo voglia.
Vieni anche ora e scioglimi dalle dure
pene e tutto ciò che il mio cuore brama
che s’adempia, adempimi tu: tu vieni
                              meco alla guerra.

  1. Sappho 68 B.