Pagina:Pavese - Dialoghi con Leucò.djvu/195

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— Il monte è incolto, amico. Sull’erba rossa dell’ultimo inverno ci son chiazze di neve. Sembra il mantello del centauro. Queste alture sono tutte cosí. Basta un nonnulla, e la campagna ritorna la stessa di quando queste cose accadevano.

— Mi domando se è vero che li hanno veduti.

— Chi può dirlo? Ma sí, li han veduti. Han raccontato i loro nomi e niente piú — è tutta qui la differenza tra le favole e il vero. «Era il tale o il tal altro», «Ha fatto questo, ha detto quello». Chi è veritiero, si accontenta. Non sospetta nemmeno che potranno non credergli. I mentitori siamo noi che non abbiamo mai veduto queste cose, eppure sappiamo per filo e per segno di che mantello era il centauro o il colore dei grappoli d’uva sull’aia d’icario.

— Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati sul cielo, fossero dèi fin dall’inizio.

— Non sempre queste cose sono state sui monti.

— Si capisce. Ci furono prima le voci della terra — le fonti, le radici, le serpi. Se il demone congiunge la terra col cielo, deve uscire alla luce dal buio del suolo.

— Non so. Quella gente sapeva troppe cose. Con un sem-