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la mia scuola di grammatica 261

ma, ripeto, con altri. Con me porrete il suggello ai vostri otto o cinque anni di pratica dei libri latini e greci. Noi tradurremo. Noi eserciteremo lo scambio d’idee e d’imagini tra i due mirabili linguaggi classici che hanno dopo morte affinato la loro vita, servendo al mero pensiero, e il nostro che è ancora anima e corpo, e si travaglia nella mutabile esistenza.

Io non farò che tradurre. Ma che è tradurre? Così domandava poco fa il più geniale dei filologi tedeschi; e rispondeva: “Il di fuori deve divenir nuovo; il di dentro restar com’è. Ogni buona traduzione è mutamento di veste. A dir più preciso, resta l’anima, muta il corpo; la vera traduzione è metempsicosi„. Non si poteva dir meglio; ma la tagliente definizione non recide i miei o i nostri dubbi. Mutar di veste (Travestie), in italiano può essere “travestimento„, e “travestire„ ha in italiano mala voce. Dunque intendiamoci: dobbiamo dare allo scrittore antico una veste nuova, non dobbiamo travestirlo. Troppo abbiamo, per il passato, travestito, e a bella posta e senza volere. Ne sono causa, forse, le speciali sorti della lingua e letteratura; il fatto è che per noi il problema del tradurre non è così semplice. Noi non abbiamo sempre e non abbiamo spesso la veste da offrire allo scrittore antico di prosa o di poesia: almeno non l’abbiamo lì pronta; almeno almeno non la sappiamo li per lì scegliere. E poi, quanto a metempsicosi, è giusta (almeno per questo proposito del tradurre) la distinzione di corpo e d’anima? Non è giusta. Mutando corpo, si muta anche anima. Si tratta, dunque, non di conservare all’antico la sua anima in un corpo nuovo, ma di deformargliela meno che sia possibile; si tratta di scegliere per l’antico la