Pagina:Pensieri e discorsi.djvu/275

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la mia scuola di grammatica 263

metta ora a scrivere, pensandoci su; e a ogni momento, lo ferma e lo fa rimanere pensoso e dubbioso. Molti si appagano, per il parlare, del dialetto del loro paese; per lo scrivere, d’una διάλεκτος κοινὴ molto generica e incolora, molto artificiale e convenzionale, e molto dura, alla cui formazione e divulgazione hanno contribuito e assiduamente contribuiscono principalmente i giornali, che sono, come è naturale, la nostra principale lettura. Molti, sì; pochi, non se ne appagano; e questi pochi sono quelli che noi chiamiamo, e soli reputiamo, scrittori. I quali, appunto, rivendicano a sè, anche a sè, quel diritto che è consentito a tutti gli altri, specialmente agli scrittori che noi non chiamiamo scrittori, di partecipare alla formazione e divulgazione della lingua d’uso comune. Ma essi, le parole che credono necessarie o utili, non le derivano solitamente da lingue straniere o non le gettano in una forma inespressiva; ma o le prendono al popolo vivo, che è così buon fabbro, o le chiedono ai grandi morti, dei quali son vivi i pensieri e per ciò non sono ancor morte le parole: lampadine che possono essere raccese anche in un sepolcro, se esse hanno l’olio di vita.

Peraltro, io distinguo. C'è traduzione e c’è interpretazione: l’opera di chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione dello scrittore, e di chi si contenta di esprimere le proposizioni soltanto; di chi vuol far gustare e di chi cerca soltanto di far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres, non importa che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole, una per molte, e molte per una; basta che faccia capire ciò che lo straniero dice. E così va bene, e questa è utile arte, necessaria per chi non sa la lingua che lo