Pagina:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu/12

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plomazia, che con una novella bevanda di Circe abbrutiva i popoli: quando, dopo un lavoro poco fecondo delle idee democratiche, l’Europa si attemperava ad aspettare giorni più lieti e confidava nelle riforme dell’avvenire; quando lo scoraggiamento faceva veder quasi infrangibili le catene della santa alleanza, e saldo il pugno in cui i Principi stringevano le sorti dell’uomo, laggiù l’idea abbordava la consacrazione del fatto, la possibilità si traduceva in rivolta. Quegli sforzi sono adesso obliati: a quel popolo non si offre adesso neppure una parola di consolazione e di speranza. L’Europa si è chiusa sulla nazione napoletana, o ne recita freddamente la formola del martirio come un curato ubbriaco il breviario. In due anni una grande demolizione si è operata sul continente. Ma la caduta di Roma, di Venezia, di Ungheria eccita ovunque un segno di dolore e di simpatia; la caduta di Napoli, quando non è stigmatizzata da una parola di oltraggio, non desta alcuna sensazione. Come una vecchia donna non ha più alcuno che la vagheggi: come una canzone triviale non trova più un menestrello che la canti. L’eco della mia voce non ha una grande estensione: il mio nome non ha la potenza di santificare un fatto ed imporlo alla coscienza dell’universale. Ciò nonostante io offro alla mia patria quest’altro tributo di devozione, unico che nell’esilio mi è dato di offrirle. Solo mi addolora che, nel passare a rivista i fatti della rivoluzione napolitana, debba sovente tacere i nomi. Non posso che delineare l’idea, seguirla nel suo cammino, e lasciare da lato gli uomini. La mia parola potrebbe valere un’accusa in questi feroci tempi: la memoria di loro servire di elemento ad un processo. E si rammenti il lettore che nelle prigioni di