Pagina:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu/67

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ed espansiva. — Iteratamente chiamato da applausi fragorosi, re Ferdinando trepidava perfino farsi ai balconi. Rassicurato però dal generale Statella, il quale gli disse non aver altro pericolo a correre che veder tolti i cavalli dalla carrozza per esser menato in trionfo, montò a cavallo, seguito da due sole guardie del corpo, ed uscì. Era pallido come un cadavere. La gioia universale gli faceva male; gli disquilibrava quasi la ragione. La clemenza del popolo l’oltraggiava; quel tripudio era un insulto: era un abuso di vittoria da parte del popolo: era un rimprovero ed un’accusa di tutto il suo governo passato: erano diciotto anni di protesta cumulati. Quella gioia non festeggiava la Costituzione conquistata, ma la forza che il popolo ritrovava, la sovranità che metteva in atto, il trionfo della sua volontà: il giudizio di diciotto anni di regno, vera usurpazione. I capelli del re, un mese innanzi, una settimana prima, neri, erano brizzolati di bianco. Il suo lento sorriso aveva qualche cosa di maniaco, il suo atto cortese qualche sforzo da disperato. In mezzo ad un’ovazione frenetica percorse la città. Ma tornato al castello, un accesso della sua malattia ordinaria, l’epilessia, lo sorprese. La paura, la rabbia, il violento dominio che aveva per molte ore dovuto esercitare sopra di sè, il paragone disperato del passato e del presente, forse le considerazioni dell’avvenire ancor esse, forse una commozione involontaria, forse il rimorso, l’antitesi satannica tra quegli applausi e quei voti sì ingenuamente espressi, tra quelle benedizioni con tanta espansione invocate ed i suoi pensieri più neri della testa di Otello, quella situazione anormale dell’anima sua, insomma, provocò il ritorno del