Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/22

Da Wikisource.

Il sergente portava un abito borghese, un paio di brache molto vecchie d’un panno un dì turchino, un panciotto nero abbottonato fino al collo, che era senza cravatta, e, sopra tutto ciò, una casacca della stoffa di cui si fanno le tonache i Cappuccini. Sul capo, per bizzarria, un berretto greco.

Il tutto, vergine di spazzola, ed infetto dell’olezzo del tabacco.

Tre cose si trovavano successivamente nella bocca del sergente: la pipa, una bottiglia di alcool e una parola d’impazienza in una lingua qualunque d’Europa. I suoi denti erano neri e solidi come chiodi. La faccia porfirizzata da macchie rosse e grigie. Due occhi rossi gli sprizzavano dalla fronte, come due carboni accesi. Una selva di capelli, grigi, indomabili, irti, si rizzavano sul suo capo come le ciocche di Medusa, non risparmiando che la fronte, alta, senza una ruga, pura, liscia come quella di una ragazza.

Due orecchie enormi s’incollavano come due coccarde agli orli laterali del suo berretto frigio. Aveva il mento della bontà e le labbra della voluttà. Se i patimenti, le privazioni, le fatiche, i liquori forti, i pensieri, i dubbi, l’infinito sarcasmo, che solcano di rovine le anime ed i sembianti, non avessero devastata quella figura maschia e serena, il sergente sarebbe forse stato ancora un uomo passabile. Così non era più che un rudero.

Le cinque del mattino lo trovavano sempre in piedi, passeggiando o piuttosto correndo a passo di carica nella sua sala, le mani dietro