Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/288

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a terra, come serpe, e mi avvicinai senza esser visto.

“Dapprima non distinsi che due bei giovani fratocci nelle loro bianche cocolle. Poi sotto una di quelle tonache riconobbi il priore, sotto l’altra Cecilia. Ce ne voleva di più? Sant’Antonio, egli stesso, avrebbe soccombuto e fatto ciò che io feci. Mi slanciai d’un salto e carpii il priore alla nuca. Gli nascosi il mio coltello nella strozza, lo gettai lontano come un masso di cenci e caddi ai piedi della dama. Ella non vide la mia attitudine galante, imperciocchè era svenuta; ma io le spippolai in seguito, minuto per minuto, la delicatezza della mia condotta. Quando riprese i sensi, il cattivo umore la dominava. Gridò, pianse, si mise in collera. Poi prese un tono altero e m’ingiunse di ricondurla a casa, mi minacciò, m’insultò. Pasqua santa! che arrabbiata di donna pudica! Ella non neglesse nulla per persuadermi che io sarei un mal creanzato se non la lasciassi andar via. In verità, io non mi ricordo troppo ora ciò che le risposi allora. Certo io le parlai in tale chiave che la divenne muta come il fondo di un pozzo, desolata come i piccoli debiti, docile come una pinzochera verso il suo confessore e, senza dimandar altro, neppur dove andassimo, ella riprese il suo cavallo, io quello del priore e....

— Che idea di andarsi a caricare di una simile pettegola in una sì grave situazione, mormorò una voce nell’uditorio.

— Avete ragione, compare, riprese il conte, ma a chi la colpa? Bisognava che Dio fosse proprio in un momento di grande corruccio