Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/32

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Don Noè rassomigliava ad un cannocchiale rientrato. Di più, egli era calvo: aveva la fronte protuberante, gli occhi vivi, le labbra grosse, la faccia gialla, il naso venato in rosso a zigzag, i denti lerci. E, oltre a tutto ciò, era goloso ed avaro.

Mastro Zungo gli aveva annunziato per lettere la partenza di suo figlio. Don Noè aspettava, dunque, Bruto. Difatti, quattro dì dopo aver lasciato Moliterno, un bel giorno di sole, verso le quattro, Bruto arrivò da suo zio. Il corricolo che l’aveva condotto fino alla porta, aveva fatto venire tutto il vicinato alle finestre, co’ suoi cavalli, più ricchi di campanelli che di carne, e coi due cappuccini, che tenevano seduto sui ginocchi questo bel giovanotto, che spirava la vita e la salute.

In meno di due minuti si sparse la voce che era il nipote del sagrestano e donne officiose e tutto cuore — come è in generale la plebe napoletana — precedettero Bruto al settimo piano per annunziarlo a suo zio.

A questa nuova e alla vista di quel pezzo di giovane, don Noè interruppe il suo lavoro (faceva calze), e montò sopra una scranna per giungere a livello di Bruto, la cui testa era a circa sei piedi dal suolo. Bruto riconobbe suo zio senza grande fatica. Gli corse incontro, aperse le braccia, se lo strinse al petto e lo abbracciò con tanta veemenza, che lo sgraziato don Noè credette di soffocare.

Mastro Zungo aveva imposto a suo figlio di mostrarsi affettuoso e carezzevole.

Bruto, trattosi indietro per un momento, si