Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/78

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nel nostro glorioso paese si paghino le produzioni teatrali?

— E poi, non c’è altro a fare eh? domandò Bruto gravemente.

— Non ne sono ben certo, rispose don Gabriele grattandosi il capo. Eh! eh! s’incoraggia tanto il teatro nazionale qui!

Qualunque altro, dinanzi a questa odissea di ostacoli, si sarebbe spaventato, avrebbe indietreggiato dinanzi a quei ritardi, a quegli insulti, a quelle spese, a quelle censure: Bruto no. La difficoltà era per lui una curiosità.

Un sarto gli diede a credenza un abito disusato coll’anticipazione di alcuni scudi, che gli furono prestati da Tartaruga.

Trovò esattamente tutto quello che il burattinaio gli aveva predetto.

Il direttore dei Fiorentini, Prepiani, sbadigliava più che non parlasse. Si presentò al censore teologo, don Gaetano Royer. Una serva era sul punto di rimandarlo, quando una nidiata di bambocci si mise a gridare:

— Entrate, signore, andiamo ad avvertire lo zio.

Bisognò, quindi, lasciarlo entrare. Mezz’ora dopo comparve don Gaetano.

Aveva gli occhiali sul naso, il viso stupido, un sorriso sciocco sulle labbra, capelli neri e barba bianca, fenomeno che Bruto spiegò pensando che quell’uomo santo aveva lavorato più nelle mascelle, che nel cervello. Don Gaetano, spalancando un numero rictus per sbadigliare, gli chiese in che poteva servirlo. Bruto gli mostrò il quaderno.