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minuziosamente, ne vedevo gl’infiniti legami e, al tempo stesso, vedevo le tante mie fila spezzate. Potevo io rannodarle, ora, queste fila con la realtà? Chi sa dove mi avrebbero trascinato; sarebbero forse diventate subito redini di cavalli scappati, che avrebbero condotto a precipizio la povera biga della mia necessaria invenzione. No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia.

E seguivo per le vie e nei giardini i ragazzetti dai cinque ai dieci anni, e studiavo le loro mosse, i loro giuochi, e raccoglievo le loro espressioni, per comporne a poco a poco l’infanzia di Adriano Meis. Vi riuscii così bene, che essa alla fine assunse nella mia mente una consistenza quasi reale.

Non volli immaginarmi una nuova mamma. Mi sarebbe parso di profanar la memoria viva e dolorosa della mia mamma vera. Ma un nonno, sì, il nonno del mio primo fantasticare, volli crearmelo.

Oh, di quanti nonnini veri, di quanti vecchietti inseguiti e studiati un po’ a Torino, un po’ a Milano, un po’ a Venezia, un po’ a Firenze, si compose quel nonnino mio! Toglievo a uno qua la tabacchiera d’osso e il pezzolone a dadi rossi e neri, a un altro là il bastoncino, a un terzo gli occhiali e la barba a collana, a un quarto il modo di camminare e di soffiarsi il naso, a un quinto il modo di parlare e di ridere; e ne venne fuori un vecchietto fino, un po’ bizzoso, amante delle arti, un nonnino spregiudicato, che non mi volle far seguire un corso regolare di studii, preferendo d’istruirmi lui, con la viva conversazione e conducendomi con sè, di città in città, per musei e gallerie.