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cui subito dopo si lanciò contro l’Italia e più contro Roma così gonfia di sè per il suo passato. Mi disse, tra l’altro, che anche loro, in Ispagna, avevano tambien un Colosseo come il nostro, della stessa antichità; ma non se ne curavano nè punto nè poco:

Piedra muerta!

Valeva senza fine di più, per loro, una Plaza de toros. Sì, e per lei segnatamente, più di tutti i capolavori dell’arte antica, quel ritratto di Minerva del pittore Manuel Bernaldez che tardava a venire. L’impazienza di Pepita non proveniva da altro, ed era già al colmo. Fremeva, parlando, si passava rapidissimamente, di tratto in tratto, un dito sul naso; si mordeva il labbro; apriva e chiudeva le mani, e gli occhi le andavano sempre lì, all’uscio.

Finalmente il Bernaldez fu annunziato dal cameriere, e si presentò accaldato, sudato, come se avesse corso. Subito Pepita gli voltò le spalle e si sforzò d’assumere un contegno freddo e indifferente; ma quando egli, dopo aver salutato il marchese, si avvicinò a noi, o meglio a lei e, parlandole nella sua lingua, chiese scusa del ritardo, ella non seppe contenersi più e gli rispose con vertiginosa rapidità:

— Prima de tuto lei parli taliano, porquè aquì siamo a Roma, dove ci sono aquesti segnori che no comprendono lo espagnolo, e no me par bona crianza che lei parli con migo espagnolo. Poi le digo che me ne importa niente del su’ retardo e che podeva pasarse de la escusa.

Quegli, mortificatissimo, sorrise nervosamente e s’inchinò; poi le chiese se poteva riprendere il ritratto, essendoci ancora un po’ di luce.