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del musetto; poi un altro tantino, fino a gli occhi; poi tutta la testina, quasi aspettando d’esser colta dal cappio alla posta.

Si era spinto a temerità inaudite: fino a domandare a Marta, sudando: — Sente freddo stamani? — Portava a scuola qualche primo fiore della stagione; ne rigirava il gambo tra le gracili dita irrequiete; ma non ardiva offrirlo.

Marta notava tutto ciò, e ne rideva.

Un giorno egli volle dimenticarsi il fiore sul tavolino della sala d’aspetto: dopo un’ora, vi ridiscese: il fiore non c’era più. Ah, finalmente! Marta aveva capito e se l’era preso.... Ma, ridisceso in sala dopo l’altra ora: disinganno crudele: il fiore era all’occhiello de la napoleona di Pompeo Emanuele.

— Ciao, cardellino! Ciao, violetto mammolo!

Eppure il Nusco non era uno sciocco: laureato in lettere, giovanissimo ancora, occupava per concorso il posto di professore d’italiano al liceo e insegnava anche per incarico nel Collegio Nuovo; scriveva poi in versi con gusto e gentilezza non comuni.

Marta lo sapeva; ma che volevan da lei tanto il Nusco quanto il Mormoni?

Il terzo professore pareva non si fosse ancora accorto della presenza di lei. Si chiamava Matteo Falcone; insegnava disegno. Pompeo Emanuele

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