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l’ironia comica nella poesia cavalleresca 117

parla bene! Quanta franchezza e quanta generosità in tutto ciò che dice! Egli considera il sacrificio come un dovere, e tutti i suoi atti, almeno nelle intenzioni, son meritevoli d’encomio e di gratitudine.

E allora la satira dov’è? Noi tutti amiamo questo virtuoso cavaliere; e le sue disgrazie se da un canto ci fanno ridere, dall’altro ci commuovono profondamente.

Se il Cervantes voleva far dunque strazio dei libri di cavalleria, per i mali effetti che essi producevano negli animi de’ suoi contemporanei, l’esempio ch’egli reca con Don Quijote non è calzante. L’effetto che quei libri producono in Don Quijote non è disastroso se non per lui, per il povero Hidalgo. Ed è così disastroso solo perchè l’idealità cavalleresca non poteva più accordarsi con la realtà dei nuovi tempi.

Orbene, questo appunto, a sue spese, aveva imparato don Miguel Cervantes de Saavedra. Com’era stato egli rimeritato del suo eroismo, delle due archibugiate e della perdita della mano nella battaglia di Lepanto, della schiavitù sofferta per cinque anni in Algeri, del valore dimostrato nell’assalto di Terceira, della nobiltà dell’animo, della grandezza dell’ingegno, della modestia paziente? che sorte avevano avuto i sogni, generosi, che lo avevan tratto a combattere sui campi di battaglia e a scrivere pagine immortali? che sorte le illusioni luminose? S’era armato cavaliere come il suo Don Quijote, aveva combattuto, affrontando nemici e rischi d’ogni sorta per cause giuste e sante, s’era nutrito sempre delle più alte e nobili idealità, e qual compenso ne aveva avuto? Dopo aver miseramente stentato la vita in impieghi indegni di lui; prima scomunicato, da commissario di proviande militari in Andalusia; poi, da esattore, truffato, non va forse a finire in prigione? E dov’è questa prigione? Ma lì, proprio lì nella Mancha! In un’oscura e rovinosa carcere della Mancha, nasce il Don Quijote.