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132 parte prima

Del resto, il Graf stesso soggiunge: «Può darsi che la contraddizione tragga la origine da una certa disformità preesistente fra l’intelletto e l’indole da una parte, e fra la virtù apprensiva e la raziocinativa da un’altra».

Ma io non posso indugiarmi a discorrere su ogni scrittore che mi avvenga di nominare in questa rapida corsa. Debbo limitarmi a fuggevoli accenni, rimandando a miglior tempo uno studio compiuto e un’antologia degli umoristi italiani, che qui, dato il mio còmpito, sarebbe fuor di luogo. Basterà porre in vista alcuni pochi nomi; e due ne abbiamo già citati di sommi, e un terzo di più modesto scrittore, che fu di popolo e artigiano, uso, come disse egli stesso «tutto il giorno a combattere con la forbice e con l’ago: cose che se bene sono strumenti da donne, e le muse son donne, non si legge però ch’elle fussino mai adoperate da loro»: Giambattista Gelli, voglio dire, che nei giardini del Ruccellai si pascolò di filosofia e diede fuori quella Circe e quei Capricci di Giusto Bottajo, che — ripeto — chi sa che capolavori d’umorismo sembrerebbero, se scritti in inglese, da scrittore inglese.

Ma sul serio, se son considerati umoristi in Inghilterra il Congreve, lo Steele, il Prior, il Gay, non troveremo noi nella letteratura nostra da contrapporre a quel mediocrissimo commediografo, il cui teatro — a dirla col Thackeray — fa l’effetto d’un triclinio o d’un cubicolo di Pompei, dove non restino più se non i cocci dell’antico banchetto o i detriti del mondo muliebre scomparso, e a quei tre altri buoni compagnoni, non troveremo, dicevo da contrapporre altri nomi di scrittori, che noi, per conto nostro, non ci siamo mai sognati di chiamare umoristi, anche del settecento, e anche di due e di tre secoli innanzi? Ma quanti bizzarri e gaj ingegni tra quei bajoni nostri del Cinquecento! E il Cellini? Sul serio, se ci vediamo porre innanzi The Dunciade del Pope, non abbiamo da prendere a piene