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54 parte prima

cioè quella tal contradizione fittizia tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. Il contrasto non è nel sentimento, è solo verbale.

Dobbiamo, dunque, da un canto tener conto di questo generale umore del popolo, di questa lingua buffona della plebe, e dall’altro intender l’umorismo in quel senso largo e improprio, se vogliamo includere tra gli umoristi Cecco Angiolieri, e non Cecco Angiolieri soltanto, allora, ma tutto quel gruppo di poeti toscani, non di scuola, ma di popolo, pieni di naturalezza nell’arte loro non ancora ben sicura, nel cui petto per prima si ridesta o di dolce voglia o per casi reali, per sentimenti veri, un’anima di canto umano, tra le insulse e sconsolanti scimierie dei poeti per distrazione o per sollazzo o per moda o per galanteria, tra i bisticci pur che siano della scuola provenzaleggiante: di quei poeti in fine, ne’ cui versi, per dirla col Bartoli, è l’annunzio del carattere realistico che assumeranno le nostre lettere.

Son toscani, questi poeti, e in Toscana segnatamente troveremo queste espressioni così dette umoristiche in senso largo: in Toscana, e nella non scarsa letteratura nostra dialettale. Perchè? Perchè l’umorismo ha sopratutto bisogno d’intimità di stile, la quale fu sempre da noi ostacolata dalla preoccupazione della forma, da tutte quelle questioni retoriche che si fecero sempre da noi intorno alla lingua. L’umorismo ha bisogno del più vivace, libero, spontaneo e immediato movimento della lingua, movimento che si può avere sol quando la forma a volta a volta si crea. Ora la retorica insegnava, non a crear la forma, ma ad imitarla, a comporla esteriormente; insegnava a cercar la lingua fuori, come un oggetto, e naturalmente nessuno riusciva a trovarla se non nei libri, in quei libri che essa aveva imposti come modelli, come testi. Ma che movimento si poteva imprimere a questa lingua este-