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l’ironia comica nella poesia cavalleresca 87

e di spada, che al paragone avrebbero fatto apparir fanciulli gli eroi di Omero; ridicolo quel frapparsi le armature e le carni per le ragioni più futili, od anche senza un motivo al mondo; ridicole le profonde meditazioni amorose, che assorbivano tutta l’anima per ore ed ore, e sopprimevano ogni ombra di coscienza; ridicole, insomma, tutte le esagerazioni dei romanzi cavallereschi. O come si vuole che un uomo imbevuto fino al midollo di coltura classica, e dotato di un buon senso a tutta prova, avesse a contemplare e rappresentare questo mondo senza mai prorompere in uno scoppio di riso? E infatti il Bojardo ride, e si studia di far ridere; anche in mezzo alle narrazioni più serie esce in frizzi e facezie; e più d’una volta egli crea scene, che si potrebbero credere trovate dal Cervantes per beffare la cavalleria ed i suoi eroi».

Il Rajna crede di difendere così il Bojardo da una ingiustizia. Il suo torto — e gli è stato rilevato alla ristampa del libro dal Cesareo1 — è quello di trattare la questione dei rapporti tra il Bojardo e l’Ariosto senza una adeguata preparazione estetica. Eppure, già il De Sanctis, trattando della poesia cavalleresca in un corso di lezioni all’Università di Zurigo, aveva avvertito maravigliosamente: «La facoltà poetica per eccellenza è la fantasia: ma il poeta non lavora solo con le facoltà estetiche, tutte le facoltà cooperano: il poeta non è solo poeta; mentre la fantasia forma il fantasma, l’intelletto e i sensi non rimangono inerti. Un poeta può avere potente virtù estetica ed esser povero d’immaginazione, commettere errori nel disegno o spropositi storici e geografici: questi difetti non toccano l’essenza della poesia. Ma se un poeta che ha in alto grado queste alte facoltà, che ha un bel disegno ed una perfetta ese-


  1. Vedi in Critica militante (Messina, Trimarchi, 1907) lo studio La fantasia dell’Ariosto (pubbl. prima su la Nuova Antologia).