Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/163

Da Wikisource.

stessi, nostro orgoglio e nostro amore. E per questa metafora soffriamo il martirio e ci perdiamo, quando sarebbe così dolce abbandonarci vinti, arrenderci al nostro intimo essere, che è un dio terribile, se ci opponiamo ad esso; ma che diventa subito pietoso d’ogni nostra colpa, appena riconosciuta, e prodigo di tenerezze insperate. Ma questo sembra un negarsi, e cosa indegna d’un uomo; e sarà sempre così, finchè crederemo che la nostra umanità consista in quella metafora di noi stessi.

La versione che Aldo Nuti dà degli avvenimenti da cui è stato travolto — pare impossibile! — tende sopra tutto a salvare questa metafora, la sua vanità maschile, la quale, pur ridotta davanti a me in quello stato miserando, non vuole tuttavia rassegnarsi a confessare d’essere stata un giocattolo sciocco in mano a una donna: un giocattolo, un pagliaccetto, che la Nestoroff, dopo essersi divertita un po’ a fargli aprire e chiudere in atto supplice le braccia, premendo con un dito la troppo appariscente molla a mantice sul petto, buttò via in un canto, fracassandolo.

S’è rimesso su, il pagliaccetto fracassato; la faccina, le manine di porcellana, ridotte una pietà: le manine senza dita, la faccina senza naso, tutta crepe, scheggiata; la molla a mantice del petto ha forato il giubbetto di lana rossa ed è scattata fuori, rotta; eppure, no, ecco; il pagliaccetto grida di no, che non è vero che quella donna gli ha fatto aprire e chiudere in atto supplice le braccia per riderne, e che, dopo averne riso, l’ha fracassato così. Non è vero!

D’accordo con Duccella, d’accordo con nonna